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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Enrico Testa, Ablativo

[ Einaudi, Torino 2013 ]

L’ultima raccolta poetica di Enrico Testa, Ablativo, inaugura una nuova stagione della sua poesia. Dopo aver avvertito e sperimentato, in una persistente faticosa attesa, il fallimento dell’epifania rivelatrice in Pasqua di neve (2008), Testa ha deciso di affidarsi al valore logico ed ermeneutico del caso latino ablativo per cercare di affrontare la realtà. Per quanto già nella precedente raccolta fosse ravvisabile un progressivo (ma mai del tutto attuato) decadimento della persona che dice io, Testa aveva provato a preservare lo statuto ontologico del soggetto.

Ora, attraverso la «poetica ablativa», l’io abbandona i propri confini semantici e conoscitivi per abbracciare la dimensione locativa e strumentale dell’essere, così come il processo del passaggio, dell’abbandono e di perdita propri del caso latino: la metamorfosi ablativa, che trova la sua massima espressione nella sezione Grammatica («Ora vivo all’ablativo», p. 87), si configura così quale pietra angolare da cui partire per una corretta lettura del testo. Una conferma (extra) testuale di questa nuova postura dell’io può essere ricercata anche nella traduzione di Testa della silloge High Windows (2002) di Philip Larkin (1974):

nell’introduzione, commentando brevemente la poesia The Mower (la cui versione italiana compare, non a caso, in Ablativo), egli sottolineava come il soggetto dovesse porsi «in una sorta di figura intermedia tra l’io lirico e la sua cancellazione» (p. X), senza perdere né il proprio rapporto con il reale né il principio di responsabilità dei suoi confronti. Sospeso tra la transizione ablativa dell’io e l’attesa di una nuova epifania laica («E per il resto? / le parole dell’imperatore: / fumo cenere leggenda / o nemmeno più leggenda», p. 43), che culminerà nella ri-scoperta del valore cognitivo della poesia («i versi, se vuoti di ogni albagia / e ridotti quasi a patiti patemi del pathos, / servono ancora. / A poco ma servono / anche se a chi e a cosa non so», p. 38) – una poesia lontana, come sempre, dagli esercizi retorici dei poeti laureati («i fragili e raffinati vasi / foggiati dal ceramista solitario / nel suo studio», p. 89) –, Testa riprende e allarga il cosmo poetico precedentemente indagato, spostando la propria attenzione verso l’“altro”:

accanto ai luoghi liguri e familiari, che ancora dominano gli orizzonti di Ablativo, soprattutto nelle sezioni più autobiografiche dove gli interlocutori del poeta sono i (suoi) morti, amici e parenti (Nel sonno, Viaggio dell’ombra, Passaggio), troviamo nuove dimensioni spaziali, come i Balcani (Balcaniche) e l’America del Sud (Breve escursione in Sudamerica), dove si attua un incontro diverso tra l’io-ablativo e le personae che popolano la poesia di Testa. Mentre l’Europa orientale, come già era accaduto nell’Arcadia di Pasqua di neve («“Arcadia” diceva il cartello stradale. / Ma nessun pastore nei pressi», p. 7), getta il lettore nella medesima dimensione di straniamento esistenziale, offrendo ai «viaggiatori travolti dal vento» i «resti di Orfeo trace / e dei suoi mansueti animali» (p. 79) come segno della propria (non) identità, sono gli «orizzonti / che hanno in sé il grigio e il giallo / e una traccia sottile di azzurro» del continente americano che adesso consentono all’io di superare le «muraglie» e «il male» di vivere montaliani (p. 96) e di riscoprire l’autenticità dell’esistenza nel gesto quotidiano e gratuito e nei «volti dignitosi e melanconici» degli uomini sudamericani (p. 103).

Muovendo dalla condizione esistentiva esperita nel mondo americano, che ha permesso alla soggettività ablativa di poter scoprire una nuova dimensione dell’essere, Testa ritorna a frequentare i luoghi deputati della propria poesia nell’ultima sezione della silloge, Passaggio, a cui affida il messaggio finale di Ablativo: in un dialogo tra vivi e morti, tra presente e passato, tra memoria e realtà, l’autore, ritrovando se stesso nell’altro, cerca di recuperare e conservare i frammenti della quotidianità, per quanto il perenne interrogativo dell’essere («Nella pienezza della sua inutilità?», p. 116) rischi di minare questa nuova scoperta dell’io.

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